Che cos’è l’economia della felicità? Intervista a Luciano Canova

Ho conosciuto Luciano per caso una sera ad Expo (sempre a proposito di luoghi e di incontri inaspettati). Mi ha incantata con i suoi racconti e quando infine ha rivelato che insegna economia della felicità, ho pensato che dovevo assolutamente condividere i suoi pensieri con i nostri lettori. E così, eccoci qui…

Ciao Luciano, innanzitutto presentati. Chi sei? Da dove vieni? Cosa ci fai qui su Destinazione Umana? 

Ciao! Mi chiamo Luciano. Sono nato e cresciuto in Valtellina, da mamma siciliana. Potrei dire che, in media aritmetica, sono di Roma. Invece preferisco aggiungere che mi sento profondamente milanese: amo Milano e penso che sia una città che vede il futuro. Sono su Destinazione Umana innanzitutto perché incuriosito dal vostro bel progetto e, poi, perché sono felice di ricevere il vostro invito.

Quanto a chi sono: sono un insegnante e un divulgatore scientifico che, a ben guardare, consistono entrambi nella stessa attività: raccontare storie.

Insegni economia della felicità. Potresti raccontarci brevemente di cosa si tratta e se è un’utopia radical chic o se è davvero una scienza applicabile alla realtà? 

Beh, occupandomene, spero proprio non sia un’utopia da Milanese Imbruttito. Economia della felicità è un filone di studi tra economia, sociologia, psicologia e scienze politiche: insomma, un bel mix di discipline per un vero contenuto da scienziato sociale. Diciamo che l’economia della felicità ha diverse accezioni: sicuramente, possiamo dire che si preoccupa di definire e misurare il benessere in modo multidimensionale.

Normalmente, ci si serve di un indicatore solo (per esempio, il reddito) per misurare il benessere materiale. Per ragioni di semplicità ed esigenze di oggettività, l’economia considera proprio il reddito l’approssimazione empirica più efficace del concetto di felicità, demandando ad altre discipline l’approfondimento e la trattazione delle altre sfaccettature.

Diciamo che l’economia della felicità restituisce, dunque, nel mondo della complessità, complessità al concetto e alle sue applicazioni. Vengono aggiunte misure, non esclusivamente monetarie, e molteplici indicatori di qualità della vita: l’ambiente, la salute, l’istruzione, il civismo, per non dirne che alcune, diventano dimensioni che contano e che devono contare anche empiricamente.

Anche la percezione soggettiva della felicità è assai rilevante.

Io mi occupo prevalentemente, da un punto di vista empirico, proprio di indicatori di benessere soggettivo: si tratta di indagini a campione per raccogliere l’auto-valutazione delle persone rispetto alla propria felicità (l’anno scorso ho lanciato insieme a un amico il progetto Appymeteo, con una app per smartphones).

Non posso dilungarmi molto, ma è un ambito affascinante perché, come dicevo prima, il tentativo è quello di aumentare la complessità degli strumenti a disposizione del decisore pubblico per provare, appunto,  a migliorare la qualità della vita delle persone.

Viene immediato fare un’associazione: economia della felicità Vs Decrescita felice. E’ così? I due concetti sono in contrapposizione?  E se sì, perchè credi che la decrescita felice sia inapplicabile su scala globale?

Ecco, io da sempre sono uno scettico totale della decrescita che, tra l’altro, non è mai stata definita da Latouche ‘felice’ (penso che l’aggettivo corretto sia ‘serena’). Pur rispettando la qualità delle riflessioni di Latouche e di chi ne segue le orme, trovo l’approccio al più utile per lo sviluppo di un pensiero critico sul consumo e, in generale, sulla generazione di ricchezza. Tuttavia, operativamente parlando, il mondo vagheggiato dalla decrescita io non lo capisco: non capisco come una società arcadica, imperniata sui servizi, possa generare benessere per tutti e, in ultima istanza, creare lavoro. Non mi pare un approccio sostenibile a livello globale e l’onere della dimostrazione spetterebbe, a ben guardare, ai sostenitori della teoria.

Diverso è dire che non si possa arricchire il pensiero sulla crescita con sfumature di complessità: l’economia ecologica di Daly, le teorie di Jackson sulla prosperità senza crescita, l’approccio delle capacità di Amartya Sen… Sono tutte riflessioni che aumentano i petali della margherita.

Il fatto, però, è che il segno meno non può diventare il carro da mettere davanti ai buoi. La sfida è declinare il più in modo più consapevole, equo e complesso.

Pop economy è il libro dove descrivi la rivoluzione che sta interessando le scienze sociali, partendo dalla prospettiva che non è la tecnologia a peggiorare le nostre vite, ma il modo, semmai, in cui la si utilizza. Dacci tre buone ragioni per comprarlo e una per non farlo.

Uh, che bella domanda…

Dunque, tre buone ragioni per comprarlo: la prima è che, non me ne vogliano gli osti che vendono il loro vino, secondo me è scritto bene. Penso di avere una certa predisposizione alla narrazione, con un registro stilistico che non è quello tradizionale usato nei saggi. Quindi, direi che si tratta di una lettura spero gradevole e, auspicabilmente, adatta anche al pubblico digiuno di un qualsivoglia background tecnico.

 

Il secondo motivo è che ho provato, in modo il più possibile rigoroso, a cambiare segno al futuro. Mi spiego: da un po’ di tempo, il futuro sembra qualcosa da cui difendersi. Anche l’innovazione tecnologica, che credo sia davvero necessaria per affrontare le sfide mondiali che ci aspettano, è vista soprattutto come uno spauracchio in grado solo di limitare la nostra libertà. Senza dimenticarci le criticità che l’automazione porta con sé (sarei sciocco se le negassi e, nel libro, cerco di argomentare in tal senso), vorrei anche trasmettere un messaggio positivo.

Il terzo motivo per comprare Pop Economy è che prova a sdoganare alcune parole entrate troppo rapidamente nel nostro linguaggio comune: big data, social network, crowdfunding… Senza mai diventare pesante, spero, è un libro che vuole spiegare che diavolo sta succedendo alla nostra quotidianità.

Per quanto riguarda, invece, un motivo per non leggere Pop Economy, che dire? Diciamo che non è un libro fatto per chi ha voglia di sedersi. Se qualcuno cerca una rotta o delle risposte precise, Pop Economy non è il luogo giusto dove trovarle. È un libro che sfida il lettore, che lo pungola e, semmai, aumenta i suoi dubbi, sempre con l’intento di liberare le energie che la creatività umana possiede infinite.

Ho deciso di farti questa intervista perchè appena mi hai parlato di economia della felicità mi sono illuminata e ho rivisto gli stessi valori che condividiamo qui su Destinazione Umana. Io ti vedrei bene come “ispirazione innovazione”. Tu che dici? 

Sì, bello ‘ispirazione innovazione’! Mi piace! Grazie mille per questa bella intervista e viva Destinazione Umana!

 

Silvia è uno spirito creativo e inquieto, alla continua ricerca di tutto ciò che è colorato, scintillante e vivo. La troverete sempre circondata da idee, dolci, vestiti, pennarelli, esseri umani. Da buon capricorno è concreta e legata alla terra, ma lo spirito…beh, quello aspira sempre molto in alto, alla ricerca delle energie positive che muovono il mondo. È l’apripista di Destinazione Umana e ogni volta che annuncia di aver avuto una nuova idea, un brivido di meravigliosa curiosità corre lungo la schiena di tutto il team, perché una cosa è certa: se Silvia dice che una cosa verrà fatta, quella cosa VERRÁ FATTA.